Slow Teaching


Se sei sempre di corsa tra compiti da correggere, lezioni da preparare e altre attività scolastiche, forse questo articolo fa per te. Immagina di non avere compiti da correggere e interrogazioni da fare nonostante i ragazzi studino e lavorino. Di avere i pomeriggi totalmente liberi e finalmente poter rispondere a chi ti scredita accusandoti di fare solo 18 ore:
“Sì, è vero, faccio solo 18 ore alla settimana! Se sei invidioso fai il prof anche tu!”. L’idea è semplice: servono tre voti nel primo quadrimestre? Bene! Preparo tre compiti autentici e li faccio svolgere… con calma!  

Scegliete un argomento, presentatelo ai ragazzi per qualche lezione, in qualunque modo desideriate, e poi chiedete di svolgere il compito autentico. La durata del compito può essere scelta a piacere (ma è slow, diamogli tempo!) e ogni lavoro può essere svolto da soli o in gruppo. Al termine i ragazzi possono presentarlo in classe (così non si corregge a casa e si condivide) e la valutazione viene data in base ad una scaletta decisa all’inizio, su cui si sono già autovalutati.  E’ interessante se una parte della valutazione viene assegnata a chi aggiunge qualcosa di personale per stimolare l’espressione personale. 

Faccio un esempio nella materia in cui l’ho utilizzato di più: Tecnologie e progettazione in una classe quinta superiore di un Itis tecnico informatico. La materia tratta diversi argomenti molto specifici dell’informatica come la comunicazione tra due computer. Per intenderci, è il modo in cui ad esempio una applicazione su cellulare come whatsapp comunica con un altro cellulare.  

Una volta spiegata come funziona la teoria e mostrati dei semplici esempi di funzionamento, ho proposto dei piccoli progetti in cui sperimentare il meccanismo. I ragazzi potevano sceglerne uno, o proporne uno loro, e poi decidere se lavorare in gruppo, dividendosi le attività, o da soli. Al termine del lavoro, ognuno ha dovuto presentare il proprio programma alla classe. Poi, a seconda della checklist di valutazione concordate all’inizio, è stato assegnato il voto. I più intraprendenti hanno realizzato dei progetti veramente interessanti aggiungendo requisiti molto originali. Altri, quelli per intenderci meno interessati alla materia, si sono fermati ai requisiti necessari per il sei. 

I Pro? La libertà concessa ai ragazzi nella realizzazione del compito: dare un compito e una scadenza permette a loro di organizzare il tempo e di lavorare meglio.
Inoltre qualche ragazzo, anche non molto bravo nelle materie informatiche, si è sentito motivato e si è impegnato molto più che in altre materie informatiche in cui doveva solo “eseguire gli ordini”.
Altri ragazzi, lavorando in gruppo, si sono specializzati nelle attività in cui si sentivano portati. Ad esempio, qualcuno ha scoperto di essere più portato per la parte grafica delle applicazioni e ha lavorato con qualcuno che invece era più portato al lato tecnico.
Infine nessuno ha lasciato a metà il proprio progetto pur di avere una valutazione almeno sufficiente e tutti funzionavano.  

I Contro? La gestione dei tempi: non è sempre facile decidere quanto un progetto debba durare.
Aumenta l’interesse ma non per tutti, ovviamente: forse non si può tutto…
La perdita di controllo dell’insegnante che richiede fiducia e pazienza: potendosi i ragazzi organizzare il tempo è capitato spesso che nelle mie ore qualcuno studiasse altre materie per poi recuperare in altri momenti. Un’altra volta un gruppo non ha lavorato per due settimane, facendo prove e tentatitvi, e poi nella terza ha finito tutto. 

Avvertenze e conclusioni. Se riuscite a sopravvivere alla noia di andare a scuola per mesi senza avere nulla da fare perché tanto sono i ragazzi a lavorare. Se avete voglia di essere liberi quasi tutti i pomeriggi e di non avere nessun compito da correggere. Se volete correre il rischio di lasciare ai ragazzi un po’ di libertà di organizzarsi. Se avete voglia di stupirvi scoprendo le cose che i ragazzi possono inventare. Se saprete resistere al fatto che nella vostra ora possano studiare anche altre materie perché più impellenti del vostro progetto. Beh, allora provate. Poi tenete quello che vi piace e buttate il resto. 

PS: qui potete trovare la pagina con i progetti che ho assegnato nell’anno 2017/2018 (molto informatici!). 

PPS: Ah! C’è un libro scritto proprio nel 2018 che parla di slow teaching! Non l’ho letto ma magari parla proprio di questo! 

PPPS: Mi raccomando prendi sempre ogni insegnamento con le pinze… lasciati ispirare e poi fai come vuoi! 🙂

Si può insegnare la democrazia a scuola?

Italia repubblica democratica

“E così ragazzi questo è il primo articolo della costituzione: L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Che ne pensate?”

Uno studente alza la mano per rispondere.

“Bene, abbiamo un volontario. Cosa ne pensi dunque?”

“Non credo che a scuola si possa parlare di queste cose.”

“In che senso?”

“Nel senso che Lei può insegnare la democrazia come un fumatore può insegnare, mentre sta fumando, a smettere di fumare”

Il professore appare un po’ contrariato, un po’ per la risposta e un po’ per il tono della risposta e sta quasi per prendersela: “Ti sembra il modo…”

“Mi scusi professore per il tono, però ogni tanto il tono ci vuole. Credo. La Rivoluzione francese non si sarebbe potuta fare se i contadini non avessero preso le armi e avessero solo mandato un messaggero. Così il mio tono è il messaggero per annunciare un messaggio che comunque porta con sé un senso di sofferenza non tanto contro di Lei ma contro il sistema in cui siamo immersi. Posso spiegarle meglio…”

“Va bene, spiegaci cosa intendi”

“Quello che intendo è che la scuola è organizzata in modo gerarchico e assomiglia più ad un apparato militare della Prima Guerra Mondiale che ad un apparato democratico. Noi studenti, come i soldati, dobbiamo obbedire agli ordini ed eseguire i compiti. Voi professori, allo stesso modo, dovete eseguire i compiti di chi è sopra di voi che spesso decide cosa ci dovete insegnare. Se noi non siamo interessati a quello che ci insegnate allora vi arrabbiate. Se anche parliamo del problema amichevolmente la risposta classica è: mi dispiace, questi sono gli argomenti e non possiamo fare qualcosa di diverso per ognuno.
Però mi chiedo allora quanto sia contraddittoria la scuola che si prefigge di forgiare nelle menti lo spirito critico e nello stesso tempo lo vieta perché lo spirito critico porterebbe anche a mettere in discussione la struttura stessa della scuola.
Credo che la scuola dovrebbe invece dare la possibilità di esprimere se stessi e la propria individualità e questo, le chiedo, è fattibile in una struttura che, per come è fatta, insegna il contrario?
Non ci resta che attendere che sia finita la quinta superiore per potere cominciare a vivere. E dopo quel momento temo sarà complicato perché dovremo sia trovare un lavoro per mantenerci che cercare di risvegliare, con pazienza, le nostre passioni.
Insomma, anche se la scuola, è vero, fornisce cultura e molti strumenti per lavorare, è come se ci uccidesse un po’ giorno per giorno.”

Lo studente continua.

“Ecco perché, secondo me, non si può parlare di democrazia a scuola se non discutendo su come si potrebbe cambiarla per trasformarla veramente in una democrazia. Lei che ne pensa? Cominciamo?”

 

Il professore e il genio della lampada

Il genio della lampada

In una bella giornata di primavera un professore decide di tornare a casa da scuola a piedi. Per la strada vede una lampada come quella di Aladino. Ridendo tra sé e sé, la strofina e rimane incredulo quando gli appare veramente il genio della lampada. “Ti esaudirò un desiderio”: gli annuncia il genio. Il professore, ancora indeciso se crederci o no, decide comunque di metterlo alla prova: “Allora. Io sono un insegnante e ogni giorno torno a casa distrutto. Mi piacerebbe proprio capire come potrei fare a fare studiare di più i miei ragazzi senza bisogno di rincorrerli in qua e in là tutto il giorno. E’ il loro dovere! E devono capire che studiare è per il loro bene. Però alcuni di loro non ne vogliono proprio sapere”. Il genio accoglie seriamente la richiesta, chiude gli occhi, e dopo un attimo di concentrazione comincia a parlare: “Caro mio, ti racconterò una storia. Il protagonista della storia è Andrea, un cuoco”.

Un ristorante cercava un cuoco per cucinare delle pietanze a base di carne. Andrea, al momento disoccupato, non voleva farsi scappare l’occasione e si presentò al ristorante sapendo di essere in grado di cucinarla ottimamente. Così, dopo un provino, lo assunsero. Già dal primo giorno cominciò a preparare le pietanze al meglio porgendole ai clienti con amore e dedizione. La maggior parte delle persone era contenta. Qualcuno però si lamentava senza un motivo particolare. Un giorno qualcuno gli tirò addirittura dietro una bistecca e lui, passata la rabbia per l’affronto, prese un pezzo della carne che era stata buttata per terra e l’assaggiò. In effetti forse era un po’ troppo cotta. Qualcosa si poteva migliorare.

Allora sfogliò le più importanti riviste di cucina e migliorò la sua ricetta. Imparò a cucinare una carne ancora più morbida e succulenta e anche i commensali furono in genere più contenti. Alcuni però ancora si ostinavano a non volerla mangiare e addirittura lo insultavano: “Ancora? Basta!”.
“Perché fanno così? Cosa vogliono?”, si domandava Andrea, con un po’ di tristezza.

Fece un altro tentativo contattando i più grandi cuochi che gli suggerirono cose così incredibili che al solo pensiero gli brillavano gli occhi. Questa volta non poteva veramente fallire. Si preparò al meglio e addirittura riuscì a coinvolgere gli stessi commensali nella cottura, portando sui tavoli delle piastre calde con sopra la carne che ancora friggeva. Come fosse un gioco. Osservò che tutti erano affascinati da questo nuovo modo e, mentre si godeva la sua vittoria, uno di loro si alzò e gli si avvicinò: “La ringrazio molto per tutto quello che sta facendo per noi ma è proprio una perdita di tempo. Se la mangi lei la sua carne”. Rimase di stucco e senza parole. Mezzo offeso e mezzo sconsolato per l’ennesimo fallimento se ne andò a casa chiedendo il pomeriggio di ferie.

“Ecco!”, interruppe il genio il professore. “E proprio così che mi sento spesso! Faccio di tutto per preparare le lezioni al meglio. Per cercare di essere accattivante e alcuni mi rispondono così. In alcune classi ce ne sono pochi e si riesce a sopravvivere a in altre, anche se può sembrare assurdo, sono la maggioranza! Allora è il delirio.”

Il genio lascia sfogare il professore e poi conclude la storia. “Infatti, caro professore, nella mia storia il problema non è la carne. E non è neppure il fatto che Andrea non la cucini al meglio. Il problema non è nemmeno il ristorante. Il problema è generalizzato in tutto il tuo paese. C’è una legge, infatti, che impone a tutti di mangiare sempre un po’ di carne e così questa viene servita anche a chi non ne ha voglia o, peggio, a chi ha scelto di essere vegano o vegetariano. Finché questa legge non verrà abrogata le persone non potranno ordinare quello che si sentono veramente di mangiare. Alcune lo accetteranno ed altre no.”

Dopo queste parole il genio scompare e il prof resta come fulminato. In effetti, riflette il professore, anche stare a scuola è obbligatorio. E’ obbligatorio che gli studenti studino. E i docenti sono obbligati a insegnare quello per cui sono pagati. A molti ragazzi piace studiare. Solo che chi non vuole studiare una materia è comunque obbligato a seguire. A volte i ragazzi si ribellano. A volte studiano lo stesso facendo il minimo indispensabile. “Dovete farlo per voi!”, li rimproveriamo! “Sì… ma se non ci interessa…”, ci rispondono a voce bassa. Così si spreca tanta energia: noi nel forzarli facendo i poliziotti e loro nel cercare di scappare. Ci si trova quotidianamente in un clima di guerriglia che logora un po’ tutti e si torna a casa a pezzi anche avendo fatto molto poco.

Ma quale potrebbe essere una soluzione? – si domanda il professore – arrivare a scuola e mandare tutto a quel paese? Instaurare un rapporto paritario con i ragazzi cercando di capire cosa vogliono anche loro e come possiamo aiutarli? Lasciarli liberi di fare quello che vogliono per un po’? Forse una di quelle scuole libertarie di cui avevo sentito parlare? Qualunque sia sembra proprio che sia venuto il momento di trovarla. Così il professore conclude il suo pensiero, distratto da un uccellino che canta su un ramo di un albero e catturato dalla bellezza e dalla spontaneità della natura in primavera.

Finalmente in vacanza!

Arrivano le vacanze di Natale! Finalmente una pausa! Sono felici i ragazzi, che hanno finito con compiti e interrogazioni. Sono felici i docenti che per un po’ possono non vedere questa o quella classe così indisciplinata. Forse sono felici anche i bidelli, i segretari e il preside. Mi immagino. In ogni caso  questo sistema è un po’ strano.

Il professore è come se fosse un muratore alle prese con la costruzione di una casa. Il suo cliente (dicono che sia il governo, che paga) cambia spesso idea su quello che vuole e ogni tanto decreta nuove regole. Il suo capo cantiere (il preside) lo convoca in riunioni improvvise quando avrebbe altro da fare e gli chiede di svolgere attività che non sempre comprende. Quando poi riesce finalmente a dedicarsi alla costruzione della casa, per cui dovrebbe essere lì, si accorge che i mattoni (gli studenti) non hanno nessuna voglia di essere impilati uno sopra l’altro. Ne impila uno e, mentre ne afferra un altro, il primo è già scappato. Allora, spaesato, parla con altre persone (gli altri professori, i genitori, i bidelli, gli amici, ecc.) che se va bene lo rincuorano perché “tanto siamo tutti sulla stessa barca”, se va male forniscono preziosi consigli. Insomma, lo hanno chiamato per costruire un muro ma non sembra così facile.

In effetti… come potrebbe essere altrimenti? Gli studenti arrivano a scuola e hanno già il piano di studi deciso, giorno per giorno, da lì a tot anni. Qualcuno ha deciso per loro gli argomenti importanti di tutte le materie e in che ordine li dovranno imparare. I docenti, a loro volta, si ritrovano obbligati a insegnare quanto richiesto. Così la situazione paradossale è che un ragazzo è obbligato a studiare sia gli integrali che Dante, pena la bocciatura. Però il suo prof di italiano presumibilmente vivrà tranquillamente senza sapere cos’è un integrale. E viceversa il suo prof di matematica sarà ben felice di non dovere più avere nulla a che fare con Dante. Avendo tutto già pianificato, le passioni personali vengono messe in secondo piano. Ricordo un professore delle medie che mi ha detto: “Quello studente è un genietto in informatica, ma alle medie non c’è la materia informatica per cui se non ha tempo di studiare la mia materia devo dargli brutti voti lo stesso”.

In questa situazione così rigida i ragazzi soffrono, come soffrirebbe chiunque. Non possono fare niente di diverso da quanto previsto, tranne lamentarsi o cercare di perdere tempo. Ogni tanto scalpitano. Alcuni diventano Bes, Adhd o disqualcosici. In casi sporadici mimano il verso di uccelli tropicali in classe. Il professore allora non capisce più nulla e a volte diventa autoritario, minacciando e incutendo timore per riportare l’ordine. Altre volte studia, si aggiorna, fa corsi e cerca di proporre attività più interessanti o di imparare nuovi trucchi pedagogici. Forse però, indipendentemente dal fatto che le attività siano interessanti o meno, i nostri piccoli mattoni ci stanno dicendo: “Prof, quella casa così importante che vuole farmi costruire, per quanto bella sia, non è la mia. Ed è un peccato che debba buttare tutto questo tempo nel fare cose che non mi interessano, litigando con lei e aspettando con impazienza che suoni la campanella per poter fare qualcosa che mi piace”.

Più di 100 anni fa Alexander Neill aveva già documentato simili situazioni, ad esempio nel suo scritto “A Dominie in doubt“. Dopo dieci anni da insegnante/preside in una scuola pubblica, fondò nel 1921 una scuola in cui tutti gli studenti potevano imparare o giocare secondo le loro predisposizioni e desideri. Senza obblighi. La scuola si chiama Summerhil e la BBC ha girato nel 2008 un bellissimo film documentario.  I suoi principi, come ad esempio il presupposto che il ragazzo di suo abbia voglia di imparare, possono essere un buon spunto di riflessione per capire se possiamo cambiare qualcosa nella nostra scuola per farla diventare un luogo dove si impara divertendosi e si sta con piacere.

Buone vacanze a tutti!

Riferimenti e ispirazione: la vita di tutti i giorni e I ragazzi felici di summerhill di Alexander Neill.

 

 

Documentario BBC su Summerhill (in inglese)

Maturità

gioiaE’ uscito dalla porta. Ha finito. Lui. Per anni ha bestemmiato e criticato il nostro lavoro. Si è lamentato di ogni cosa fatta. Questa non era certo una materia che gli piaceva. Non c’era verso che l’apprezzasse. Avevo provato le cose più fantasiose, ma niente da fare. La Materia non gli interessava. E così spesso si veniva a creare un triste braccio di ferro tra me, che cercavo di fargli fare qualcosa, seppur il minimo, e lui, che proprio non ne voleva sapere. E il 6? Beh, quello alla fine se l’è guadagnato facendo il minimo indispensabile. Dove è la soddisfazione di chi ha deciso di fare come lavoro l’insegnante? E dove la soddisfazione di chi ha deciso che quella cosa non la vuole fare?

Comunque alla fine ce l’ha fatta e ha finito anche con la maturità. E come lui anche qualcun altro. “Cosa farete una volta usciti da qui?” è la domanda di rito del presidente. “Ho già trovato lavoro”, è la risposta. Mi bastava il diploma. Ovviamente il lavoro non ha nulla a che fare con la Materia”.

“Potevamo fermarlo?” Viene quasi da pensarlo con un ghigno. Ma sarebbe stato un ulteriore braccio di ferro in cui se anche avesse vinto il professore, cosa avrebbe vinto? Non è meglio alla fine che lui possa vivere la sua vita facendo del bene alla comunità facendo quello che è portato a fare piuttosto che fermarlo ancora solo perché qualcuno ha fatto la scelta sbagliata tanti anni prima? Dopo tutto ora è felice. Lo si vede nel suo sorriso, una volta tanto sereno, mentre esce dalla porta.

Provando ad osservare le cose da fuori, cercando di non finire nella trappola di identificare vittime e carnefici, ci si domanda se forse c’è un modo per arrivare alla fine senza tutto questo odio e rancore. Se la Materia proprio non gli va giù, cosa posso fare con lui nei lunghi anni in cui io e lui ci troviamo nella stessa classe? Cosa posso insegnargli? Cosa posso imparare da lui e da questa situazione?

Come vivere più serenamente tutto quel tempo, salutandosi ogni mattina con un sorriso, piuttosto che con un ghigno di rabbia al pensiero “Oggi ti frego io!”. La rabbia dopo tutto crea stress e non fa bene a nessuno. Forse invecchia, dicono.

Mentre scrivo queste parole e rifletto su questi interrogativi sono seduto in riva ad un fiume. Il fiume scorre sereno, con la più grande naturalezza. Lui ce la fa. Penso: “Sì. Ci deve essere un modo per vivere queste situazioni con il sorriso”.

Al tuo servizio

need-help

Quando insegniamo spesso ci rifacciamo a qualche metodologia che conosciamo, sia essa la lezione frontale, il lavoro collaborativo o la didattica capovolta. Altre volte la metodologia non ha un nome: vediamo qualcosa che per gli altri ha funzionato ed ha avuto successo e decidiamo di provarlo. Che manchi qualcosa?

In questi casi partiamo da un modello e lo applichiamo, dando per scontato che vada bene perché se ha funzionato altre volte, o per altri, non può che funzionare ancora. Ricordo diversi consigli di classe in cui qualche docente accusava una classe di essere particolarmente lavativa perché “ha 9 classi, spiega a tutte la stessa cosa e quella è l’unica che non capisca nulla. Non può essere che colpa loro!”. Se ci riflettiamo però siamo tutti diversi e quindi anche ogni classe è diversa. Se provassimo quindi a fare l’opposto? Se partissimo da una domanda invece che da una soluzione?

La domanda è molto semplice e si può utilizzare sempre, sia che si torni a casa scornati perché qualcosa è andato storto, sia che siamo felici perché invece è andato tutto bene: “Cosa posso fare adesso per loro?

Il bello è che la risposta non segue nessuna metodologia e nello stesso tempo sfrutta tutto quello che conosciamo! Potrebbe servire un’ora di riepilogo perché sembra si siano persi qualcosa, o un’ora di svago perché sono stati bravi e hanno dato del loro meglio. Potrebbe servire del materiale diverso perché hanno delle difficoltà a studiare. Potrebbe servire una verifica perché è importante che imparino delle nozioni o un compito autentico per lavorare sulle competenze. Potrebbero avere bisogno di maggior rigore e scadenze più ravvicinate per imparare un po’ di disciplina o di maggior tempo per sviluppare la loro fantasia e le loro intuizioni. Potrebbe anche venirci in mente qualcosa che non c’entra nulla con la nostra materia che però in quel momento ci sembra importante per loro. Potrebbero esserci cinque persone che devono recuperare e si potrebbe pensare a come fare in modo che gli altri gli diano una mano per aiutarsi gli uni con gli altri. Potrebbe servirgli un video di ripasso o un esercizio particolare per approfondire un argomento. O anche potremmo volere chiedere a loro se hanno voglia di imparare qualcosa in particolare.

La cosa interessante, e a volte un po’ magica e che immagino che anche a voi sia capitata più volte, è che nel momento in cui ci domandiamo qualcosa… da qualche parte arrivano le risposte. A volte sfogliamo un libro e scopriamo un esercizio che fa al caso nostro, leggiamo un post su internet che è proprio quello che fa per noi o semplicemente ci viene un’idea.

Così se creiamo le lezioni in base a quello può servirgli, le lezioni diventano più interessanti e personalizzate. Diverse da classe a classe e da docente a docente. Questo non implica dovere preparare per forza materiali diversi per ogni classe ma attingere in modo diverso a quello che abbiamo.

In più, insegnandogli che è importante andare incontro ai loro bisogni oltre che imparare conoscenze e competenze, gli trasmettiamo anche l’idea che il lavoro è un servizio. Un servizio per gli altri nel quale possiamo utilizzare tutte le nostre qualità, conoscenze, abilità, competenze e tutti gli spunti e le idee che ci vengono.

Insomma, ci vuole un po’ di coraggio per provare, ma quello che si ottiene è dinamico, divertente e ci permette di accompagnare tutte le classi ad imparare nella modalità che è più utile per loro. Solo un’avvertenza: nel momento in cui pensate che anche questa sia diventata una procedura, lasciate perdere il tutto e sperimentate qualcosa altro.

Insegniamo competenze?

la classe capovolta
Alla scoperta di un nuovo mondo

Qualche giorno fa si è conclusa la Summer School della classe capovolta di Levico e mi sento di condividere un interessante spunto che è emerso durante uno degli interventi.

Ha detto il professor Maglioni di flipnet: “La più grande svolta per me è stata cambiare l’impostazione della mia didattica dallo spiegare la mia materia (chimica) a concentrarmi sull’insegnamento delle competenze sfruttando la mia materia. Così facendo i ragazzi si sono subito sentiti più coinvolti e partecipi e questo non ha impedito a loro di imparare la mia materia”.

Già di per sè il solo fatto di fare in modo che i ragazzi siano più motivati e interessati è un bel risultato, se poi i risultati in termini di apprendimento non subiscono riduzioni… allora forse è utile cercare di capire cosa intendesse, almeno per rifletterci su un po’.

Cosa vuol dire spostare il focus sulle competenze piuttosto che sugli argomenti? Prendiamo ad esempio un compito autentico da svolgere in classe su un argomento di chimica e chiediamo che i ragazzi risolvano in gruppo il seguente problema: “E’ più nutriente un panino di McDonald o una pizza?”

Questo problema, apparentemente semplice, richiede diverse conoscenze e competenze:

  • Conoscenza (o discussione in gruppo) sul concetto di “nutriente”
  • Scoperta degli ingredienti per calcolare le calorie
  • Comunicazione nella madrelingua, se ad esempio richiediamo che i componenti del gruppo espongano brevemente il loro risultato, magari alternandosi
  • Competenze matematiche per il calcolo degli ingredienti
  • Imparare ad imparare, facendo in modo che i ragazzi per svolgere il compito possano utilizzare i loro smartphone per cercare informazioni
  • Spirito di iniziativa e imprenditorialità, magari aggiungendo la domanda: “quale mangeresti?”

Per fare lavorare i ragazzi sulle competenze sopra elencate si aggiunge al problema una checklist creata ad hoc. La checklist rappresenta una guida per lo studente in modo che sappia sia cosa fare, sia come autovalutare il lavoro. Inoltre è la stessa che poi userà il docente per la valutazione. Potrebbe essere:

  • Avete lavorate bene in gruppo e ogni componente ha svolto il proprio compito?
  • Avete calcolato correttamente le calorie dei due prodotti?
  • Avete deciso il risultato finale e l’avete documentato?
  • Avete trascritto le fonti che avete usato per documentarvi?
  • Avete presentato il vostro lavoro in 5 minuti, alternandovi?

Il compito ora è aperto e tutto da risolvere! I ragazzi possono decidere il tipo di panino da confrontare, possono farne una media, possono scegliere il tipo di pizza, la sua dimensione, ecc… Discutendo del concetto di “nutriente” possono arrivare anche a diverse interpretazioni con risultati anche molto diversi tra loro, sempre restando dentro i confini della checklist che, come già detto, servirà da valutazione e da confronto al termine del lavoro.

E le conoscenze? Il compito autentico ne è ricco! Il significato di calorie, grassi, carboidrati, ecc… Quindi per svolgere il compito le conoscenze servono!

Però la valutazione va oltre, si focalizza sulle competenze e sul lavoro di gruppo e le conoscenze sembrano secondarie, anche se sono la base, e il compito diventa più interessante da svolgere perché più simile a qualcosa di reale. Un compito del tipo: “Scrivi le calorie di questo elenco di ingredienti”, molto probabilmente non sarebbe svolto con lo stesso interesse.

Le competenze, usate in questo modo con i compiti autentici, non sono un bel modo per impreziosire e arricchire la nostra didattica?

Riferimenti:

Il sito della summer school di Levico

Impariamo dalla natura

habanero-chocolate

Un giorno stavo facendo la spesa al supermercato quando sono passato davanti ad una teca in cui erano esposti diversi tipi di semi. Era un periodo in cui stavo seguendo un corso in cui ci avevano chiesto di imparare a prenderci cura di una pianta. Ci avevano detto che ci avrebbe insegnato molte cose. Così erano diversi giorni che finivo per essere attratto inesorabilmente da tutti i sacchetti di sementi e dalle piante che mi capitavano sotto gli occhi. Avevo già comprato semi di pomodoro, di basilico, di aneto e di ravanelli. In più avevo una pianta di stevia e una di salvia ananas che mi aveva regalato la mia ragazza. Ma stavo ancora cercando qualcosa.

E così, ecco spuntare davanti a me una bustina di peperoncini habanero: i più piccanti al mondo! Avevo sempre amato il peperoncino e, seppur immaginando di non potere sopportare la piccantezza degli habanero, non potevo resistere all’emozione di coltivare qualcosa di così forte. Così in un attimo mi sono ritrovato in mano una busta di Habanero Chocolate,  quelli che sono in competizione con gli Habanero Red Savina per il record mondiale di piccantezza  e che in più hanno un incredibile color cioccolato. Che bellezza!

Il tempo di semina segnato nella bustina era aprile/maggio. Perfetto! Era l’inizio di maggio. Un segno del destino! Finalmente potevo coltivare i peperoncini dei miei sogni. Sono corso a comprare vasi, terra e fertilizzante in modo da sistemare al più presto i preziosi semini sotto la terra.

Passa un mese. Il vaso è ancora vuoto. Mio padre mi aveva avvisato che lui aveva rinunciato a seminare i peperoncini e che preferiva comprare direttamente le piantine perché i peperoni sono tra le piante più lente a nascere dal seme. Ma insomma, poteva anche essersi sbagliato e io li stavo innaffiando tutti i giorni. Li stavo curando al meglio. Li stavo fertilizzando. Non potevano farsi attendere ancora molto.

Passano un mese e dieci giorni. Spunta qualcosa. L’eccitazione è palpabile e la cura aumenta ancora di più. Le foglie sono strane, non sembrano quelle di un peperone, ma che mai potrebbero essere? Decido di trapiantare la piantina in una altro vaso per lasciare spazio ai prossimi nascituri.

Passano un mese e venti giorni. Nasce un’altra piantina. Trapianto anche quella con entusiasmo. Nel frattempo la prima pianta sembra ben poco un peperone ma boh… continuo a innaffiarla.

Passano quasi due mesi. Le prime due piante trapiantate sembrano decisamente erbe sconosciute. Una ha fatto dei semi tondi simili ai pomodori che mi dicono essere velenosi. Nel vaso invece nascono finalmente una decina di germogli. Aspetto con impazienza qualche altro giorno e sì! Questa volta le foglioline sono inequivocabilmente quelle di una pianta di peperone! Evviva! Dopo due mesi…

Trapianto anche quelle in altri vasi. Continuo ad innaffiarle. Giorno per giorno. Nel frattempo siamo arrivati a metà luglio e ci sono 38 gradi. E’ il panico. Nonostante innaffi di continuo le piantine soffrono. La pianta più grande dovrebbe essere già abbastanza grande per fare fiori eppure non si vede nulla. Che sia il caldo? Che abbiano poco solo? Che ne abbiano troppo? Le sposto affannosamente da una parte all’altra del terrazzo in cerca di una soluzione. La innaffio la sera e la mattina. Quando non posso avviso il mio coinquilino di innaffiarle. Chissà cosa pensa quando gli arriva su whatsapp il messaggio disperato: “le piante! Le piante! Aiuto!”.

Ma niente. I fiori non sbocciano. E quando sbocciano si seccano subito. Li osservo durante il giorno e non capisco. Ci sono insetti che volano dappertutto. Sui fiori di basilico, su quelli di pomodoro e su quelli di stevia. Sui fiori dei ravanelli che non ho mangiato ci sono addirittura degli sciami però nessuno si avvicina a quelli di peperone. Forse è per quello che non prendono. Provo col dito. Passo il dito sui fiori sperando di impollinarli io. Ma sembra non funzionare ancora. Anche se le ho provate tutte i fiori cadono.

Finalmente a metà agosto un fiore decide di darmi un po’ di soddisfazione e una pallina verde comincia a crescere dove prima c’erano i petali. Giorno per giorno è sempre più grande. E’ lui! E’ il mio primo Habanero. E’ bellissimo e non posso fare a meno che a raccontarlo a tutti. Certo non condividono tutti il mio entusiasmo visto che alcuni rispondono: “cos’è un habanero”? Però sono finalmente felice.

E’ il dieci settembre e il primo peperoncino, di uno stupendo color cioccolato è pronto. Lo raccolgo con cura e lo porto ad un pranzo dai parenti che si sono radunati tutti dopo la vendemmia. E cavolo… non ci pensano nemmeno ad assaggiarlo. Ne hanno addirittura paura. Dopo tutto hanno anche ragione perché è piccantissimo e solo appoggiarlo sulla lingua fa male. Ma che importa? Che soddisfazione!

Ma che fatica! Ho passato mesi di ansia in cui le ho provate tutte. Ho provato tutte le cose che mi sono venute in mente per quel peperone: concimi di ogni tipo, sole e non sole. Ho provato anche a fare l’ape. Sembrava che i peperoni dovessi farli io invece che la pianta. Però ora che è qui, tra le mie mani, ne sono orgoglioso.

Nel frattempo siamo arrivati al 20 settembre. Mentre in terrazzo controllo il primo Habanero che si sta seccando giorno dopo giorno, la pianta mi osserva da vicino. E’ tranquilla. Sta bene. Chissà a cosa pensa. Credo mi stia osservando con un sorriso di simpatia mente mi affanno ancora una volta nell’attesa. Sicuramente mi ringrazia di averle fatto passare in vita la torrida estate e nel frattempo, forse semplicemente perché è arrivato il momento giusto, la temperatura giusta o il clima giusto, e anche senza la mia ansia e la mia pressione, ha più di trenta nuovi peperoncini che stanno crescendo allegramente.

E noi per chi insegniamo?

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In classe a volte viene la domanda: ma per chi sto insegnando?

A volte insegniamo per una entità superiore, quando seguiamo il “programma”. Allora facciamo le corse per finire gli argomenti, ci preoccupiamo se siamo indietro e competiamo con altri docenti che sono più avanti di noi domandandoci di nascosto: “Ma come fanno?”. A volte lo facciamo per i genitori. Allora ci pieghiamo lamentandoci un po’ a chi senza essere in classe pretende di sapere che le lezioni devono essere fatte in un certo modo, quale è la giusta serietà da tenere in aula e quali sono gli argomenti importanti da svolgere. A volte lo facciamo per noi. Allora parliamo solo dei ragazzi migliori e raccontiamo a tutti quanto siano bravi, gli facciamo studiare argomenti che interessano solo a noi e ci offendiamo se non vengono capiti, li coinvolgiamo in progetti “importanti” che gli apriranno la mente o gli facciamo provare immediatamente l’ultima trovata tecnologica o metodologica che abbiamo scoperto.

In tutti questi casi diamo un po’ per scontato di essere noi, o inconsciamente altri per noi, gli unici a sapere di cosa hanno bisogno i ragazzi. Il bello è che se da un lato siamo convinti di essere nel giusto, dall’altro siamo anche convinti che altri docenti, come noi a loro volta convinti, facciano fare cose veramente assurde. E se provassimo per un attimo a buttare tutte le nostre convinzioni e provassimo a fidarci dei feedback dei nostri studenti? Se i ragazzi in qualche modo sapessero indirizzarci meglio di noi, e del mondo esterno, su cosa è importante per loro? Cosa faremmo se decidessimo di insegnare veramente per loro?

Forse si potrebbero togliere gli argomenti che non piacciono a nessuno. Forse ci sarebbe più entusiasmo. Forse ci sarebbe tempo per parlare di argomenti nuovi che un insegnante non avrebbe mai pensato di includere. Forse non ci si fisserebbe sui primi della classe, che farebbero tutto anche da soli, e si potrebbe imparare qualcosa proprio dagli ultimi, capendone le ragioni.

Come potrebbe suonare il motto: “vi insegno quello che volete” (compatibilmente con la fattibilità)? Se funzionasse potrebbe portare un po’ di gioia e di distensione nella relazione quotidiana tra studenti e docenti?

Il compito autentico

libro

Se sapete cosa è il compito autentico potete saltare questa prima parte introduttiva e passare alla seconda parte.

Per chi invece non sapesse di che si tratta parto da una definizione che mi sembra abbastanza completa: “Il compito autentico è un compito che prevede che gli studenti costruiscano il loro sapere in modo attivo ed in contesti reali e complessi e lo usano in modo preciso e pertinente, dimostrando il possesso di una determinata competenza”. In parole semplici: una normale attività della vita reale, ricca e splendida, in cui si utilizzano tutte le capacità acquisite e la creatività per risolvere un problema vero.

A scuola in genere le cose funzionano al contrario del compito autentico. Nella vita reale Thomas Edison, inventore della lampadina, ha provato 10000 volte a bruciare fili di tungsteno prima di scoprire come fare quello giusto. Poi una volta arrivato alla soluzione ha preso un pezzo di carta e ha scritto tutti i passi per arrivare costruirla. In classe si parte dal concetto di lampadina già esistente, si spiega di cosa si tratta e come funziona. Manca un po’ tutto quello che ha motivato Edison: il bisogno e l’intuizione che l’ha spinto a crederci anche dopo 10000 fallimenti, la soddisfazione di scoprire qualcosa e la possibilità di usare tutte le sue risorse per risolvere il problema.

Se nella vita reale quindi risolvere problemi veri è più interessante e dà più soddisfazione che non studiare a scuola, come posso rendere un compito che affido ai miei ragazzi il più autentico e interessante possibile?

Come realizzare un compito autentico

Il metodo proposto non vuole essere IL metodo ma solo un metodo per farlo. Ogni compito autentico è altamente personalizzato in quanto con le stesse premesse e con le stesse regole ognuno di noi realizzerà un compito diverso dagli altri e, anche se non sarà il migliore, sarà perfetto perché pensato e personalizzato in base alle nostre conoscenze e ai nostri studenti. Se volete potete anche “ispirarvi” a compiti realizzati da altre persone.

La ricetta per preparare il compito è molto semplice.

Ingredienti: Un argomento da trattare a vostra scelta, il kit delle competenze, word o un foglio di carta e Internet

Ricetta: Scrivi l’argomento in cima alla pagina e descrivi brevemente come lo spiegheresti normalmente. Poi apri il kit delle competenze e scegli una delle competenze o un elemento della motivazione che ti ispira.

Rileggi l’argomento scelto e leggi le domande relative alle competenze scelte. Ad esempio se tu avessi scelto “Competenza digitale” potresti domandarti “Si può utilizzare la tecnologia in modo creativo per imparare l’argomento scelto?”.

Pensaci qualche secondo in modo che ti venga in mente qualcosa. Quindi scrivilo sotto all’argomento.

Ripeti l’operazione con tutte le competenze e con tutte le domande sulla motivazione che desideri e modifica se ritieni opportuno anche quello scritto in precedenza in quanto potrebbe venirti una idea migliore.

Quando pensi di avere creato un bel compito rispondi alle domande nelle parti finali del kit delle competenze che riguardano che le tempistiche, le modalità di svolgimento e la valutazione per decidere come organizzarlo concretamente.

Infine lascia decantare per qualche minuto distraendoti e facendo altro e rileggi l’esercizio che hai pensato ponendoti la domanda finale: “Farei io questo compito?”

Buon divertimento!

Esempi e riferimenti: